Vagare per una città immerso nell’incanto d’un lungo tramonto di maggio. Strade monumentali edifici modernisti… estensioni cubiche, moli bianche intarsiate di scuri e innaffiate dei colori crepuscolari che tanto s’addicono al passante svagato che riposa lo sguardo sul morbido marmo d’annate immemori. Eppure, a folate arrivano, graffiate dei gridi dei topini volanti, le voci festose d’una folla assiepata fra i tavoli di bar e ristoranti… la convivialità post-covid si diffonde lungo alcune vie… come tentacoli umidi e lucidi, gruppi d’umani contemporanei tornano a godere dell’ebrezza, tornano a intessere la mobile tela che li divide dal baratro profondo e blu dell’Adriatico antico. Ma il nostro camminatore di cui sono visibili solo i tronchi delle gambe, unico contatto con la terra, sotto l’asfalto, e la roccia carsica, al di sopra conduce la vaporosa mente lungo stradoni inspiegabilmente vuoti, sorprendentemente remoti, scorre sui vuoti che rivelano interni dove spazio e tempo litigano e si contorcono in fioriture oniriche colme di ciglia sul sonno di occhi che non vogliono o non possono vedere più l’accozzaglia delle barche sui lunghi moli come parole che rotolano goffe lungo lingue smozzicate perché prive di manutenzione. Non è raro ch’egli si fermi all’improvviso, come risvegliato dall’olezzo restio di pesce consumato, oppure dal forte tepore agrodolce di caffè ultramarino, per non omettere quell’odor erbaceo che sprigiona la tipica slava varietà d’erbette ribelli alle rocce e vitali… elicrisio, lavanda, rosmarino salvia e alloro di cui si cinge la già coronata testa di TRST armata d’alabarda dorata come sulla facciata del palazzo del governo su quella piazza dove per quanto ricolma d’umani ti fa sentire sempre solo: l’unità! Illusoria nomenclatura… tènere vocali che soccombono all’aspra e coriacea razza scolpita da mani impazienti, alla bell’e meglio. Suoni aspri e secchi soffocati da quella musica d’acciaio elettrificato dal ritmo sincopato di botte e dolci sorrisi, provengono da locali nascosti, clandestini, spesso ricavati nei fondi e si domanda, il nostro pellegrino, se in quegli antri oscuri ci siano danzatrici gitane dagli ampli abiti colorati dalla pelle scura o ocra come l’ambra che scendeva dal nord. Si accompagnerebbe volentieri lungo la via indecisa se esser affollata o vuota, con una di quelle danzatrici a braccetto, rincuorato dal calore del suo petto invece di ritrovarsi abbracciato e ansimante sul freddo bronzo d’una statua di scrittore, invece di restarsene chissà per quanto tempo ancora verde e dorato e sporco eppure immutato a TRST.
Stefano Grassi (testo e foto)